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Autismo, disabilità tra problemi e difficoltà sociali

 L’autismo è una patologia psichiatrica molto particolare, talvolta difficile da gestire e che inficia in maniera cospicua la vita di chi ne soffre e di chi gli è legato. Ora un sondaggio condotto dal Censis per conto dell’Angsa (Associazione nazionale genitori soggetti autistici) e della “Fondazione Cesare Serono”, ci regala uno spaccato della vita sociale e e medica dei malati. Chi sono gli autistici? Scopriamolo insieme.

Di norma hanno dai 3 ai 42 anni, prevalentemente di sesso maschile. Nel  72,5% dei casi frequentano la scuola ed una volta cresciuti, un numero pari  13,2% segue un centro diurno nel quale viene seguito. Le terapie più diffuse sono  di tipo cognitivo-comportamentale, spesso legate a sessioni di logopedia, fisioterapia e alla psicoterapia.

Solo una volta raggiunta l’età adulta vengono sottoposti a terapie farmacologiche per contenere l’evoluzione della malattia. Un disagio che si riflette a livello sociale soprattutto per ciò che riguarda una eventuale indipendenza: il 96% dei ragazzi malati di autismo vive infatti in famiglia e solo il 4% in istituzioni di tipo residenziale. Nel 64,2% la disabilità dei pazienti viene vissuta e descritta  dalle famiglie come “grave o molto grave”.

Anche a livello comunicativo, sottolinea il sondaggio del Censis, sono presenti dei problemi di una certa caratura. Il 77,2% mostra di avere una compromissione importante della comunicazione verbale e non verbale, mentre il 73% soffre di problemi nell’apprendimento e in percentuale pari al 70,8% di comportamenti ossessivo-compulsivi ed autostimolatori.

Sono l’aggressività e l’autolesionismo ad essere considerati i disturbi più difficili da gestire in generale dai genitori nei confronti dei figli. E che rappresentano l’ostacolo più grande da superare, specialmente se la situazione permane grave anche nel corso dell’adolescenza. Soprattutto perché non di rado, la diagnosi arriva sempre dopo molti anni e percorsi medici molto complessi. Spesso e volentieri servono almeno tre anni (45,9%) per una diagnosi certa. In alcuni casi anche di più.

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