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Coronavirus, ecco il languishing, il senso di vuoto che non passa

La pandemia di coronavirus sta costringendo la sanità ad occuparsi in modo più stringente anche di tutte quelle conseguenze psicologiche che il virus ha portato nella società: tra di esse spicca il languishing, un senso di vuoto che le persone sembrano essere non in grado di affrontare e combattere in maniera adeguata.

Cosa significa languishing

Sotto il termine languishing viene riconosciuta quella sensazione di stanchezza, noia e mancanza di motivazione che sembra essere diventata una compagna di vita assidua nelle persone che hanno combattuto contro il coronavirus o che sono state costrette a passare mesi chiusi in casa senza socializzare come si faceva un tempo. Secondo gli esperti si tratta di una conseguenza della pandemia di covid-19 molto più diffusa rispetto a quello che si pensa: una sorta di assenza di benessere che gli individui sembrano non essere in grado di colmare.

A tirare fuori il termine languishing ci ha pensato lo psicologo Adam Grant sulle pagine del New York Times, spiegando cosa è possibile riscontrare alla base di questa sensazione di indifferenza generale che le persone stanno sperimentando ultimamente. Il professore ha spiegato:

Languishing è il figlio di mezzo, trascurato, della salute mentale. È a metà tra la depressione e la prosperità. È l’assenza di benessere Non si hanno sintomi di disagi psichici, ma non si è nemmeno il ritratto di una buona salute mentale. Chi soffre di languishing non sta funzionando a pieno regime. Esso offusca la vostra motivazione, interrompe la vostra capacità di concentrazione e triplica le probabilità di ridurre l’efficienza di lavoro

Secondo l’esperto questa sensazione può essere comparata alla  visione della propria vita che accade come filtrata da un vetro appannato. qualcosa che spenge le motivazioni e distrugge la voglia di fare.

Una sensazione già emersa in passato

Tornando indietro nel tempo si scopre che questo termine è stato coniato dal sociologo americano Corey Keyes nel 2002, il quale sosteneva che si trattasse di “una vita di quieta disperazione“. Uno studio da lui condotto su 3332 adulti di età compresa tra il 25  e i 74 anni era stato in grado di dimostrare come già diversi anni fa circa il 12,1% delle persone presentava una sintomatologia psicologica molto simile a quella sperimentata ora a causa dell’emergenza coronavirus.

Quello che si spera è che con le campagne vaccinali in alto si possa tornare al più presto ad una sorta di normalità che consenta di affrontare la problematica in maniera differente, ma allo stesso tempo gli esperti avvertono che proprio questa possibilità di un cambiamento radicale rischia di confermare nella mente delle persone l’idea di non avere controllo sulla propria vita tipica del languishing.