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L’effetto placebo: cos’è e come funziona

 

In medicina la parola placebo indica una preparazione inerte (a base di zucchero, lattosio, amido, acqua zuccherata od olio d’oliva), quindi priva di qualsiasi effetto far­macologico. Che, però, funziona. A patto che chi la assume sia con­vinto di prendere un farmaco vero. Sebbene la parola placebo appar­tenga ad un concetto della medici­na moderna, l’uomo da sempre ne fa uso. La stessa medicina degli sciamani o dei curanderos, con l’utilizzo di “polverine” senza dimostrato effetto farmacologico, rappresenta un’applicazione del­l’effetto placebo. Il placebo interferisce anche con la biochimica del corpo.

 

 L’assunzione di finti antidolorifici, come spiegano gli studi più recen­ti, per esempio, consente la libera­zione di analgesici naturali (endor­fine, encefaline, dinorfine) che favoriscono l’attenuazione o la scomparsa del dolore. E’ l’ennesima dimostrazione della forza della psiche che, alla sola idea di ricevere una cura, risponde con un immediato beneficio. Dunque la mente (che crede di aver assunto un farmaco) ordina e il corpo esegue, producendo quelle sostanze che porteranno al miglio­ramento della situazione. Il primo a dimostrare la scientificità di questa, che fino o ad allora era stata solo un’i­potesi, fu il biochimico americano Candace Pert (National Institute of Mental Health di Bethesda) che scoprì la presenza, nel cervello, di meccanismi che mettono in comu­nicazione psiche e corpo.

 

 Ma la forza del placebo riceve conti­nue conferme. Dalle pillole di zuc­chero che, nel 42% dei casi, fanno crescere i capelli di uomini colpiti da calvizie fino all’asma dei bambini che, nel 33% dei casi, dopo aver ina­lato un placebo si acquieta, come segnalano studi citati e pubblicati dal New York Times. Dai finti inter­venti in artroscopia di un ortopedico di Huston che ha potuto constatare il perfetto funzionamento del ginoc­chio anche di chi, in realtà, aveva subito solo piccoli tagli ma nessuna vera manipolazione. Fino alla prova di un neuroscienziato italiano (il pro­fessor Fabrizio Benedetti dell’uni­versità di Torino) su un malato di Parkinson, al quale veniva fatto credere di ricevere (attraverso degli elettrodi impiantati nel cervello) sti­molazioni che riducono il tremore e i movimenti involontari.

 

 Anche in questo caso la risposta è stata positiva, per peggiorare poi quan­do veniva rivelato l’imbroglio. Da ultimo, un’ulteriore curiosità. La convinzione che si tratti di un vero farmaco è tale da prevedere, tra i vari effetti, anche quelli collaterali. Il fenomeno si chiama ‘nocebo‘ e può dare gli stessi sintomi negativi del farmaco vero quali nausea, tachicardia, insonnia. Spiega Carlo Lazzari, medico e psicologo

 

“Le malattie che più risentono positivamente dell’effetto placebo sono: l’emicrania, i dolori alla schiena, i malesseri post-chirurgi­ci, l’artrite reumatoide, l’angina, la depressione”.

 

Ottime risposte si registrano anche per quel che riguarda la pressione sanguigna, la tempera­tura cutanea, il livello di colestero­lo, la frequenza cardiaca. Le perso­ne che meno rispondono al place­bo, invece, sono i neurotici e gli ipocondriaci. Vi sono, poi, soggetti che accet­tano come curative terapie che per altri sono, invece, invasive. Le creme, gli unguenti, gli oli e il gel, sono considerati più abbordabili da parte delle persone che preferiscono metodi fai-da-te: stimo­lando le terminazioni nervose cutanee legate ai centri del pia­cere, solleciterebbero un mag­gior benessere, favorendo il rilascio di endorfine. Pillole o com­presse, invece, sembrano essere più adatte per le cosiddette ‘per­sonalità orali’ ossia per chi scarica la propria tensione e l’ansia sui muscoli masticatori. Spiega ancora il dottor Lazzari

“Una capsula grande è considera­ta più efficace di una pillola. L’iniezione sembra avere un effetto analgesico maggiore. Se, poi, il placebo è anche amaro siamo certi che funzionerà al meglio. Ad ogni modo l’aspetto del farmaco o della cura risente molto della cultu­ra della persona e del luogo ove la terapia viene proposta”