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La sola età gestazionale non basta a fare la prognosi

L’età gestazionale, considerata in molti centri di terapia intensiva neonatale come il parametro più indicativo di maturazione e quindi di vitalità del neonato, non deve essere il solo fattore da valutare, al momento del parto, di fronte all’ardua scelta di rianimare un feto estremamente pretermine. Questa raccomandazione arriva ai neonatologi da uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, condotto dall’Università del Texas, che ha seguito una coorte di più di 4.000 bambini pretermine, nati tra la 22esima e la 25esima settimana, periodo delicatissimo, perché ritenuto, dagli esperti, al limite delle possibilità di sopravvivenza del feto al di fuori dell’utero materno.

Altri elementi, come il sesso femminile, il trattamento prima della nascita con corticosteroidei, i parti singoli rispetto a quelli gemellari, piccoli incrementi del peso alla nascita (anche se solo di 100 g) avrebbero effetti benefici sia sulla sopravvivenza che sulla qualità di vita futura dei piccoli nati, riducendo, oltre al rischio di mortalità, anche quello di sviluppare esiti neurologici a distanza. Aggiungono i ricercatori

“Questi vantaggi sarebbero addirittura paragonabili a quelli ottenuti un aumento dell’età gestazionale approssimativamente di una settimana”.

Ciò significa che, se si tiene conto di questi fattori, la stima della prognosi dei neonati prematuri a parità di età gestazionale può cambiare drasticamente. Per esempio, la probabilità stimata di morte o di grave danno permamente di un neonato di sesso femminile nato tra la 24esima e la 25esima settimana, con peso alla nascita di 750 g (appropriato alla sua età gestazionale) e che ha ricevuto corticosteroidi prima della nascita è del 33%, mentre la stessa probabilità sale all’87% se si tratta di un neonato di peso di 525 g (piccolo per l’età gestazionale), di sesso maschile, nato da parto gemellare, che non ha beneficiato della terapia con steroidi, e ciò anche se l’età gestazionale è identica.

Inoltre, basare la decisione di intraprendere o no delle cure intensive solo sulla valutazione, dell’età post-mestruale può indurre gravi errori, perché calcolo può essere impreciso e può comportare, a volte, anche una differenza di una o due settimane rispetto alla datazione reale. Spiegano gli autori

“Per questo motivo è sempre fondamentale la valutazione clinica della vitalità del neonato al momento della nascita, anche se gli studi epidemiologici non lasciano molte speranze ai genitori dei neonati con prematurità estrema: sotto le 22 settimane la sopravvivenza del prematuro è un fatto eccezionale, sporadico e quasi miracoloso. Tra la 23esima e la 25esima si apre uno scenario vario in cui la prognosi di vita e di eventuale danno permanente del prematuro deve essere valutata caso per caso.”

I risultati di questo studio americano sono in sintonia con altri dati precedenti condotti su casistiche internazionali. I neonati prematuri sono stati rivalutati, per evidenziare possibili danni nello sviluppo psicomotorio a 18 e a 22 mesi di età corretta. Dei 4.000 piccoli pazienti selezionati alla nascita, 49% è morto, il 12% ha riportato gravi esiti a distanza, il 24% presenta sequele neurologiche.
Se si stratificano poi i dati per l’età gestazionale, il risultato che salta di più all’occhio è quello che correla il grado di prematuntà con la mortalità e con i danni più o meno invalidanti riportati. Dalle 22 alle 25 settimane di età gestazionale il rischio di morte si riduce dal 96% circa al 25%, ma il 40% dei sopravvissuti rimarrà affetto da deficit importanti.

In quest’ottica diventa sempre più fondamentale, come concludono i ricercatori considerare, oltre all’età gestazionale del nascituro altri fattori, carichi di un forte significato prognostico, per rendere le decisioni terapeutiche meno arbitrarie, meglio giustificate e più individuali per ogni singolo piccolo paziente. In sostanza, proprio il contrario delle linee guida che impongono la rianimazione solo sulla base dell’età del tempo passato dal feto nell’utero materno.